Ci sono cose che ancora non hanno la loro parola che le nomina, che le definisce.
Per esempio:
i passi brevi di Charlie Chaplin di spalle nello schermo.
La Guinness che si siede lenta come un bradipo delle birre nella pinta sul bancone.
Il signore anziano seduto al tavolino che indovina le parole crociate.
La mano del postino che cerca le lettere da mettere in buca.
Il silenzio delle vetrine dei negozi, di notte.
Lo sguardo dei bambini al circo, di mattina.
Vorrei la parola che dice
il silenzio dei miei occhi chiusi e poi spalancati e poi chiusi e poi spalancati davanti al mare d’Irlanda, Il ponte di Galata a Istanbul, le stelle nel cielo del Malawi, la strada lunga verso il Mozambico illuminata dalla luna.
I passi che si fermano davanti ai quadri nei musei,
come fossero immensi film.
Il pinguino che cammina e sa la sua odissea.
Gli ombrelli rotti che volano al vento.
I piedi di mia madre che balla anche da seduta.
E il mio sogno di vedere gli studenti che s’alzano dai banchi, uscire dal cancello
e andare a difendere
gli operai, i migranti, le donne, gli ultimi degli ultimi degli ultimi,
e una voce che dice – ecco, ecco a che serve la cultura, la Storia, la Geografia, la Spiritualità, la letteratura, ad agire,
a mutare ciò che t’insegnano essere immutabile.
Vorrei una parola per il silenzio dei partigiani
che camminavano di notte nei boschi,
e gli occhi della Storia a dir loro – che paese pulito che voi siete.
La parola che dice di quei due vecchi
che mano a mano camminano nel tempo necessario a dire il tempo non mi deruba se lo riempio d’amore.
Vorrei scriverlo
in questa mia vita
Il vocabolario delle cose senza nome.
Il mare, il mare, il mare di chi lotta, di chi non si fa rubare lo sguardo dal disincanto,
Che dice nella sua storia minima eppur gigante
– non mi avrete, sarò sempre onda, sempre onda, sempre, sempre.
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